domenica 12 maggio 2013

12_ Apple Records


"Possibile che senza di me non sai stare neanche un giorno?"  disse ridendo Laura infilandosi la t-shirt con stampata la mela verde e la scritta The Beatles. Gabriele seduto a bordo del letto, la guardava rivestirsi, le mani incrociate fra le gambe aperte, gambe nude, vestito solo dei boxer di cotone bianco e dei calzini scuri che arrivavano poco sopra la caviglia. Voltandosi verso di lui Laura, lo notò pensieroso ed era una cosa di lui che proprio non sopportava, lei che ora era letteralmente al settimo cielo per quello che ancora una volta c'era stato fra loro, mentre lui indossava un'espressione cupa e lontana. Gabriele si toccò il mento con la mano sinistra alzando lo sguardo verso il soffitto bianco della piccola camera di quell'alberghetto di provincia, cercando di evitare gli occhi indagatori di lei.
Presa la giachettina che era adagiata sulla spalliera della sedia Laura la tirò verso di lui con fare giocoso, cercando di coinvolgerlo in quella sua gioia "Il solito musone! ...dai che te la cavi ancora bene in certe cose!" "Me la cavo? E così me la cavo solo?" e intanto le afferrò il polso "Senti, senti la signorina Garbo... da quand'è che è diventata così esigente la piccola Lolo?", si alzò in piedi cercando di afferrarla a lui, mentre giocavano in quello che doveva essere una sorta di guardia e ladro, lei gli scappò dalla stretta, ma subito lui la prese di nuovo, stavolta in braccio e la sollevò da terra, anche se solo di qualche centimetro, visto quanto lei era alta. Poi la baciò sul collo e le disse: "Dai, vestiti. Che ti porto a mangiare in un posto qui vicino in cui sono stato qualche anno fa..."



I due si rivestirono lentamente assieme, in una sorta di danza, guardando in silenzio l'immagine che lo specchio grande quanto l'intera parete del bagno restituiva di loro. Poco alla volta, quella differenza d'età che lo specchio rifletteva si faceva sempre più evidente, indumento dopo indumento: una ragazzina in t-shirt e jeans a fianco di un uomo in giacca e cravatta

Al ristorante Gabriele ce la portò per davvero prima di condurla in quella vecchia fabbrica abbandonata che nonostante tutto conservava quel fascino lugubre che solo le costruzioni industriali di inizio secolo sanno trasmettere attraverso le loro pareti in calcestruzzo scrostato ed altre di mattoni su cui piante rampicanti si aggrappano scavando la malta polverizzata delle fessure che si interpongono fra mattone e mattone.
Al ristornate pranzarono fuori, sotto una vigna, anche se non la giornata non era una di quelle migliori, non era caldo ne c'era il sole, ma un cielo lattiginoso, di un grigio uniforme. Però fuori il piccolo cortile vestito dei colori autunnali meritava di sopportare un poco di freddo.
Bevvero molto, forse per scaldarsi, forse, entrambi, per non pensare. Poco alla volta, però anche a Laura salì la tristezza che accompagnava l'uomo che le sedeva di fronte a quel tavolo ben apparecchiato, che nonostante i suoi tentativi per mascherarla, continuava a conservare. Parlarono per lo più di sciocchezze, anche se lei pur conoscendo ciò a cui andava incontro, non potè sottrarsi dal sapere certe cose della vita di lui: come se la passava, come stava il ragazzino a cui aveva impartito lezioni di italiano, matematica, storia e scienze per più di due anni. Ma ciò che più le premeva sapere era come andasse il rapporto fra lui e sua moglie. E prevedeva cosa lui le avrebbe risposto, perchè molte altre volte si era avventurata in quei discorsi, nutrendo però sempre la speranza che le risposte di lui potessero cambiare, ma anche stavolta le frasi che gli sentiva pronunciare con la sua solita tranquillità e fermezza, erano sempre le stesse. E lo odiava in quei momenti, odiava il fatto che nonostante tutto lui continuasse a scegliere lei e di più ancora odiava che lui parlasse di quel rapporto, a lei, in quel modo. Per lui era normale non filtrare quello che le raccontava, si confidava senza il minimo scrupolo proprio come se la persona a cui stava raccontando certi dettagli della sua vita privata non fosse la donna che era innamorata di lui, ma solo un vecchio amico, senza pensare che ciò che diceva in realtà la ferisse. Lei intanto cercava di fare la forte, incassando in silenzio verità che le procuravano una sensazione simile a quella di essere trafitta da spade a cuore e stomaco. Terminarono il pranzo parlando di altro, ma ormai entrambi erano avvolti da un certo malumore che li attanagliava, anche se dal sapore molto diverso, lei quello di sentirsi una stupida, perchè nonostante tutto non riusciva a chiudere con un uomo che non l'amava, lui perchè si sentiva uno stronzo a farle questo e molto presto di peggio.

Brigitta Destro

sabato 20 aprile 2013

11_5 dita


“Sali pure!”
Il portone di ferro si aprì automaticamente cigolando solo dalla metà dell’apertura e si richiuse dietro alle spalle di Giulio con un rumore sordo.
Le scale malamente illuminate che collegavano l’entrata di servizio al primo piano di un’ex fabbrica di suole per scarpe, chiusa per fallimento più di 4 anni fa, scricchiolavano sotto i suoi piedi.
Arrivato al pianerottolo si vide accolto da una guardia molto più alta di lui che dopo averlo riconosciuto lo accompagnò lungo il corridoio illuminato a giorno da delle luci a neon bianchissime, tanto che Giulio capì il perché degli occhiali da sole della guardia.
Arrivati alla penultima porta la guarda si fermò dicendo: ”Aspetti un attimo qui signore” entrò nella stanza e subito dopo ne uscì facendo cenno di entrare.
La stanza era assolutamente anonima, probabilmente un ex ufficio che non veniva riaperto da tempo con un computer portatile funzionante su di una scrivania impolverata.
Giulio si sedette tossendo rumorosamente e pensando che, una volta o l’altra, sarebbe morto a causa dell’asma.
Una volta seduto si sfilò il braccialetto nero che portava nascosto dalla manica della camicia e lo diede alla guardia che uscì dalla stanza chiudendola a chiave.
Giulio si sgranchì le gambe e si massaggiò il volto indolenzito dallo stampo delle cinque dita di Laura felice che il metodo comunicazione ideato dall’organizzazione non comprendesse l’approccio visivo.


Sentì oltre la porta altri passi e un’altra serratura chiusa con sicurezza “ok ora ci siamo tutti”.
Lo schermo del pc si accese da solo e ne fuoriuscì una voce evidentemente effettata: “benvenuti, vi ringrazio per essere nuovamente tutti presenti e per aver accettato il nuovo sistema di comunicazione, comprendete bene che dopo l’ultimo tentativo di infiltrazione era necessario avervi tutti qui fisicamente con la possibilità di verificare l’autenticità dai braccialetti dell’ordine. Come avete notato le vostre voci saranno schermate e uscirete dalla stanza uno alla volta senza il pericolo di potervi vedere in faccia, non preoccupatevi della guardia che avete incontrato sulle scale, è un uomo fidatissimo e all’oscuro dei nostri piani. Vi ho convocati perché è tempo di passare nuovamente all’azione. Il governo si ostina a non voler trattare con noi nonostante gli ultimi attentati e allora io dico colpiamo più in alto! Vi ricordo come la nostra organizzazione punti a vendicarci del sistema che ha assassinato le nostre famiglie e ad instaurare finalmente la più giusta delle democrazie: l’anarchia!”
Ci fu una lunga pausa prima che la voce metallica ricominciasse a ronzare “ il nostro prossimo obbiettivo sarà la famiglia più ricca e potente del nord-est, visualizzate i documenti che avete sul desktop e salvateli nelle vostre chiavette, quello è il nostro obbiettivo: la figlia della famiglia Garbo si chiama Laura. Tra i documenti troverete gli indirizzi delle proprietà di famiglia . Dividetevi e rapitela in modo che possiamo usare i suoi genitori per contattare le alte sfere del senato notoriamente vicine ai Garbo. Ognuno di voi ha de luoghi da controllare. Portatela al solito posto stando attenti alle scorte che solitamente la accompagnano…” “Scusi se la interrompo ma penso sia inutile dividerci per cercarla, penso di poter svolgere questo compito da solo” interruppe Gabriele suscitando un brusio di sottofondo da parte degli altri sconosciuti in collegamento “Perché pensi di riuscire da solo? Hai visto quante sono le proprietà dei Garbo e quanto frequentemente si spostino?” “Si ho visto, conosco la famiglia e ho frequentato la ragazza tempo fa.” “Interessante, quindi sapresti dirci delle sue abitudini e dove possiamo concentrare le forze per rapirla cogliendo di sorpresa la sua scorta?” “Meglio!” sussurrò Gabriele massaggiandosi la guancia dolorante per il tatuaggio a 5 dita procuratogli dalla ragazza in questione “so dove trovarla… ora… e senza scorta!”

Michele Brugiolo

sabato 30 marzo 2013

10_ Ai Gonzaga


“Quel zainetto rosa mi è famigliare... però, che gambe..!”, pensò fra sé Gabriele, ci mise un poco, nell’oscurità della notte, a mettere a fuoco quella figura che stava attraversando la strada. Ci mise un po’ soprattutto perchè mai avrebbe immaginato che lei si potesse trovare nel cuore della notte lungo una strada, proprio quella strada. Era il classico momento in cui, guardando un telefilm di serie zeta, vista la proverbiale coincidenza dei fatti, ti trovi a pensare: “fatalità!”.
“Ehi, accosta! Accosta!”, Gabriele scese in fretta dall’auto e rincorse la ragazza, non si era sbagliato affatto, era proprio lo zaino che due volte la settimana vedeva appoggiato alla sedia del suo soggiorno, era l’Invicta di lei. 

Lo-Lo” le bisbigliò piano, Laura sentendosi chiamare così, sentì il cuore fermarsi per qualche secondo per poi ri-cominciare a batterle all’impazzata, un nodo le si era stretto in gola, si era paralizzata, non riusciva nemmeno a girarsi verso quella voce. Lui le afferrò il braccio voltandola verso di sé, “Lo-Lo! Ma, ma sei tu! Ma come sei ridotta? Stai bene? Che ci fai qui sola a quest’ora della notte?”, Gabriele cercava d’incontrare con gli occhi quelli della ragazza, ma lei faceva il possibile per evitare lo sguardo di lui.  
“Dannazione! Non può essere possibile... Tanto valeva mi facessi un nuovo taglio di capelli!”, ancora una volta i pensieri avevano preso voce, contro la sua volontà. Il suo essere impulsiva era qualcosa di talmente radicato da manifestarsi continuamente: nelle scelte, spesso sconsiderate, che prendeva, nel decidere quali persone voleva o meno nella sua vita, nel modo di vestirsi e truccarsi, quel suo modo di parlare e persino di muoversi.
Perchè in quel momento quello a cui pensava era di non essere poi tanto diversa da qualunque altra
femmina, solo la sua magari era stata una scelta solo un po’ più “drastica” e non pianificata. Grosso errore quello, la non pianificazione.
Infondo è così, pensava, dietro ad ogni nuovo cambiamento c’è una storia finita in malo modo, c’è chi decide di fare un nuovo taglio di capelli a chi decide di “scappare”. Ok, magari non sempre, ma spesso è così.
“Perchè, scusa?!? Che ho che non va? ...ah beh dimenticavo che ho quasi ogni cosa a non andarti bene, che scema!” “Non essere ridicola! Guardati... fa un freddo cane e tu sei praticamente mezza nuda, sei sporca e per di più sei... sei scalza!”
Ogni volta con lui era la stessa identica storia, ormai non le riusciva neanche più di non fare la scontrosa, era il suo modo per proteggersi da quell’unica persona a cui, altrimenti, avrebbe lasciato fare qualunque cosa le chiedesse ed era ben conscia di questo, soprattutto di quanto pericoloso sarebbe stato per lei.
“Senti, cerca di non fare tante domande e portarmi al primo albergo che troviamo per strada... infondo un favore almeno, me lo devi...” “Ma sentila! E così ti dovrei un favore?”
D’altro canto, anche per lui era impossibile rimanerle indifferente, più lei si metteva sulla difensiva più lui aveva voglia di buttare giù quel muro che lei cercava di costruire. Era qualcosa di palpabile il potere che aveva nei confronti di quella ragazza e anche se si sentiva uno stronzo sapendo come le cose, ogni volta, sarebbero andate, non poteva fare a meno di provocarla per vedere se ancora una volta, nonostante tutto, lui non le era indifferente.
“Senti, tu e i tuoi cazzo di giochini psicologici del cazzo... Lasciami al primo albergo, punto!” “Sai che non ti ricordavo così sboccata... tranne in qualche situazione dove la cosa era ben gradita... dai salta su e non fare caso a quel scimmione che ho in macchina” A quelle parole il volto di Laura si accese di un rosso che solo la notte poteva nascondere. “Perfetto, come se non bastasse, ora mi tocca convivere anche con i ricordi di lui che mi tocca e fa tutto quello che certe situazioni vogliono si faccia e che lo fa pure bene.
Merda, troppo bene. Merda, merda, merda. Oddio... ora sento anche il suo profumo. Posso morire, ora. Laura sta calma, sta calma...” stavolta era riuscita a tenere per sè quei pensieri e cercava di controllare l’espressione del volto, perchè altrimenti un sorriso beota le si sarebbe stampato in faccia. Niente come vedere Gabriele poteva renderla felice, almeno per il momento, almeno poteva fidarsi della sua guida.
Laura salì nella lussuosa berlina scura, interni in pelle chiara, mentre di sottofondo riconosceva la musica preferita di lui, erano i The Strokes, non c’era dubbio, quella era “Heart in a cage”, ironia della sorte: la canzone di quando lei decise di dirgli che “Basta. La finiamo qui.”. E sempre una loro canzone aveva accompagnato il loro primo bacio, “Someday”, lui l’aveva presa, seduta sul tavolo della cucina e baciata, tutto talmente in fretta che lei quasi non aveva avuto il tempo di accorgersi cosa stava succedendo.
Il “scimmione”, come Gabriele l’aveva definito, si girò appena verso di lei per salutarla, e subito la macchina riprese la corsa verso quello che doveva essere, secondo le indicazione dell’autista imbranato di prima, Mantova.
Dopo un quarto d’ora accostarono all’albergo “
I Gonzaga”, abbastanza ovvio come nome pensò Laura. 


Assieme a lei scese anche Gabriele, la voleva accompagnare dentro per assicurarsi che tutto fosse a posto. Arrivati alla reception la ragazza seppe cavarsela brillantemente col pernottamento, forse anche perchè quella era una settimana come tante altre, non c’erano particolari festività di mezzo, nè tanto meno ponti.
“Bene... Grazie per il passaggio allora! Una volta tanto mi sei stato utile!” “Ma come? Non mi chiedi di salire?”

Brigitta Destro

martedì 26 febbraio 2013

9_"Al lamallo velde"


Giulio si sentì terribilmente solo.
Percepiva distintamente i demoni del rimpianto e della disperazione che lo stavano raggiungendo per rapirlo, conosceva bene quei due esseri e sapeva qual’era l’unica cosa che avrebbe potuto fare per sopportare la loro presenza senza impazzire: bere!
Decise di continuare a camminare nella stessa direzione di Laura pur tenendosi a distanza, non voleva che lei pensasse che la stesse seguendo, non avrebbe sopportato un altro sfogo da ragazzina isterica.
Camminando però non poté fare a meno che ripensare a quello strano incontro e chiedersi perché lui si fosse aperto così tanto con lei e in così poco tempo; le aveva raccontato parte degli avvenimenti che avevano segnato la sua vita e lei in cambio, gli aveva urlato di tutto… certo quel brutto incidente proprio non ci voleva ma che colpa ne aveva lui se chi veniva in senso opposto guidava come al  gran premio di Montecarlo?
“Ragazzetta ingrata…ingrata e fastidiosa” pensò, eppure non riuscì a eliminarla dai suoi pensieri fino a quando non trovò una vecchio osteria che dava sulla strada.
“Al ramarro verde” lesse a bassa voce pensando che fosse un nome strano, una volta entrato pensò che probabilmente nessuno dei gestori sapeva pronunciare il nome del loro locale correttamente: erano tutti cinesi.
“Al lamallo verde… anzi no, al lamallo velde” si corresse mentalmente e con un cenno di saluto rivolto al cameriere si sedette ad un tavolo.




I demoni che si portava dietro e che poteva distintamente vedere sulla soglia dell’osteria lo controllavano a vista ma sapevano che, una volta davanti ad un bicchiere di un qualsiasi intruglio alcolico, loro non potevano dargli più fastidio, così, in quelle occasioni, aspettavano sempre che venisse cacciato fuori per ubriachezza molesta e che smaltisse la sbornia prima di tornare a tormentarlo. Anche per degli spettri interiori le energie vanno risparmiate!
Giulio ordinò da bere indicando una cosa a caso sul listino degli alcolici, appoggiò la testa alla mano e il braccio al tavolo, si sentiva ancora una volta una persona sconfitta.
Non aveva più amici da ormai un sacco di tempo e la solitudine lo aveva scavato rendendolo insicuro e ancora più goffo di quello che già era, invidiava molto quegli uomini d’affari tutti d’un pezzo che, come quello che stava entrando ora, sprigionavano sicurezza da tutti i pori.
“Due caffè ristretti in tazza grande grazie!” ordinò con voce sicura il giovane in giacca e cravatta che entrò al Ramarro verde, parlava con un uomo più grande di lui di età e di corporatura, l’altro ascoltava pazientemente senza perdersi un gesto del ragazzo rispondendo solo quando quest’ultimo gli dava la possibilità di farlo.
I demoni di Giulio fissavano questi due uomini e poi sorridendo tornavano a guardarlo come per sfotterlo leggendogli nella mente tutta la sua invidia.
Chissà cosa ci stavano facendo li quei due personaggi fin troppo eleganti che stonavano visibilmente con la vecchia tappezzeria del locale, “ecco qui a lei!” finalmente arrivò il drink che aveva ordinato e lo accolse con un sospiro di sollievo, alzò la testa sorridendo a sua volta alzando la mano con il bicchiere in direzione dei suoi tormenti, ogni tanto gli piaceva prendersi qualche piccola rivincita.
“Alla salute buon uomo!” Giulio non si rese conto che mentre compiva quel gesto sciocco, il giovane incravattato stava guardando nella sua direzione e vistolo gli rispose al volo.
Gli capitava di confondere la realtà con il suo cupo mondo di spettri personali ma quella volta l’aveva combinata grossa, non aveva proprio voglia di relazioni interpersonali eppure i due gli si stavano avvicinando. “Possiamo dare una letta al giornale?” “Giornale?” pensò Giulio guardando il tavolo “oh si certo!” rispose notando che aveva inavvertitamente appoggiato il gomito proprio sopra ad un giornale senza neppure notarlo.
Giulio lo osservò per bene dal fondo del bicchiere mentre stava bevendo e notò una scritta sul suo fermacravatta dorato: Armani; pensò “questo qui si che deve godersi la vita! Beh io bevo… alla faccia vostra brutti stronzi…” non fece in tempo a posare il bicchiere che entrò un altro uomo decisamente più grasso ma sempre elegantissimo e, con uno strano luccichio che gli balenava tra le labbra, chiamò a gran voce: ”Signore è arrivata la chiamata dobbiamo partire subito!”.
Il giovane fece cadere il giornale su di un tavolo con noncuranza mentre l’altro lasciava una banconota sul bancone del tavolo, uscirono in gran fretta oltrepassando i suoi demoni che, come ologrammi, si scomposero a metà per poi ricomporsi come nulla fosse, in fondo erano figure ben visibili e palpabili solo nella testa e nel passato di Giulio.

Michele Brugiolo

martedì 12 febbraio 2013

8_ Into The Wild


Ora era facile arrivare alla conclusione del perché fosse stato sbattuto dentro, tutta stava se credergli o meno, ma anche partendo dal presupposto di fidarsi e decidendo di non metterlo ancora una volta nei casini (ma quanta sfiga aveva intorno quell’uomo?) solo una era la cosa da fare, allontanarsi da lui (soprattutto dal momento in cui di altra sfortuna, Laura, non ne aveva bisogno).
“Ok, mi sa che ho capito cosa è successo poi… mi sa anche che sia meglio se ci lasciamo qui, anche perché avrai le tue belle grane da risolvere già con l’incidente e, giustificare la mia presenza a bordo della tua auto non sarebbe tanto facile… poi, senza offesa, ma era di un passaggio che avevo bisogno e per poco non ci ho rimesso le penne. È il caso di salutarsi qui.” “Sì, io ritorno all’auto… Cercherò di fermare la prima macchina che passa per strada, il mio cellulare è morto, gli si è scaricata la batteria diverse ore fa… a proposito, tu ce l’hai? Me lo puoi mica prestare?” “No, se avessi avuto un cellulare con me, ti assicuro che a quest’ora saresti già al fresco!” “Mi sento uno stronzo a lasciarti così, dopo l’incidente che ci è successo... per di più scalza… ma, non so proprio che altro fare e immagino che la mia compagnia anche a te non risulti più tanto gradita e ti sarebbe solo un peso… Tieni il tuo zaino! Allora… Addio?!?” “Direi proprio di sì… Addio e buona fortuna!”
Detto questo, Laura prese lo zaino e cominciò a rovistarci dentro, ricordava bene, ecco infatti spuntare fuori un paio di calzini pesanti, se li mise, si girò verso l’uomo e si salutarono per l’ultima volta, fece pochi passi nella direzione opposta a quella di lui che quasi subito gli urlò contro: “Ehi… Mi sai dire dove siamo? Non ho la minima idea di dove andare…”. Non si era resa conto di aver pronunciato quella domanda tanto spontaneamente le erano uscite di  bocca le parole, ma appena vide lui che le stava prestando attenzione, si sentì come morire, si vergognava a tal punto di fare la figura di quella che non era in grado di badare a sé, di non essere sufficientemente indipendente che il cuore le aveva preso a battere talmente forte da sentirlo in gola.
“L’ultimo paese che abbiamo passato era Governolo, ma dubito tu lo conosca. Stavo andando verso Mantova, mancheranno una quindicina di chilometri per arrivarci… Forse è il caso che ritorni con me verso la strada e chiedi passaggio a qualcun altro.” “Scusa, ma allora perché mi hai portata fino a qui, in mezzo al nulla? E poi… che persona sana di mente potrebbe farmi salire in macchina presa così, di notte e, anche se fosse, sai domande che mi farebbe? Poi magari passando vedrebbe anche la tua macchina fuori strada e potrebbe pensare chissà cosa… boh… penso di camminare un po’ e intanto cercare di schiarirmi le idee… almeno adesso so più o meno dove sono. Ciao.” “Avevi perso i sensi e mi ero spaventato, sei una ragazzina, non ci conosciamo ed io sono da poco uscito di galera… volevo solo evitare di venire, ancora una volta, incolpato di qualcosa che non ho fatto… Laura, buona fortuna!” “Grazie, mi sa che ne avrò bisogno.”.
Arrivata alla strada dove poco prima quel tale che le stava dando un passaggio aveva sbandato,  Laura decise di proseguire il cammino seguendo lo sterrato a fianco del fossato che costeggiava la strada, non le andava che qualcuno, passando in macchina, la vedesse, men che meno rischiare di finirci sotto a quella macchina.
Mentre camminava aveva iniziato a credere che il fatto di partire all'avventura in quel modo non era stata una delle sue scelte più geniali, forse aveva visto troppi film e ritrovarsi in una situazione tanto grottesca, idiota e insensata senza sapere cosa fare e con una fortissima tentazione di chiamare casa e farsi venire a prendere dall’ “amata” madre, la mandava fuori di sé. Possibile, con tutta la gente che poteva darle un passaggio l’unico coglione a fermarsi era un incapace e per di più di una sfiga mortale? Altro che Into the wild,  Into the shit



Per lo meno era stata previdente nel portarsi dietro tutti i risparmi che aveva racimolato
quell'estate.
Laura aveva sempre avuto una particolare attitudine con le lingue e quindi appena laureata la sua relatrice le aveva trovato un lavoro come traduttrice per una famosa casa editrice torinese lavoro che sbrigava da casa [scusate la cacofonia tra ice-ice e casa –casa, ndr], e che le garantiva una buona entrata economica. Soffrendo d’insonnia, questo lavoro era solita sbrigarlo la notte e avendo la giornata libera aveva deciso di impartire qualche ripetizione a ragazzini di medie e superiori e proprio quel lavoro da “insegnante” era stata l’altro fondamentale motivo scatenante di quella fuga. Più precisamente quel motivo si chiamava Gabriele e vestiva solo completi Armani, faceva il banchiere ed era per lei, l’uomo più affascinante che avesse mai conosciuto.

Brigitta Destro

martedì 5 febbraio 2013

7_Il dente d'oro


“Venerdì 9 aprile 2010 cielo parzialmente nuvoloso per presenza di velature con tendenza all'intensificazione della nuvolosità nel  tardo pomeriggio/sera.
Giulio, suo marito, era appena uscito di casa per recarsi al lavoro e, Lorenza, si stava freneticamente preparando per recarsi al suo.
Mentre trangugiava una banana ancora visibilmente acerba con la bocca piena di caffè amaro si truccava alla buona (evitava il più possibile di farlo perché questo le ricordava la madre sempre imbellettata e vestita come se un principe azzurro avesse dovuto rapirla da un momento all’altro, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno!).
Amava il suo nuovo lavoro, entrare in quella vecchia libreria di paese con tutti quei libri in disordine da sistemare, spolverare e consigliare. Adorava il loro odore e, sorridendo, spesso pensava che avrebbe dovuto trovare il modo per convogliare quella fragranza in un profumo dandogli magari un nome francese tipo “Eau de culture”.
Pur non essendo una grande mangiatrice, i libri che preferiva sfogliare nei momenti di pausa a lavoro erano quelli di cucina, adorava come la commistione di una semplice lista di ingredienti potesse miracolosamente animarsi nella sua testa per dar forma a quella pietanza così artificiosamente resa nella foto sottostante; li vedeva danzare su di un tavolo, volteggiare sopra le pentole per poi cuocere allegramente su fornelli dalle fiamme fucsia. Purtroppo però tutte le sue ricette avevano sempre lo stesso profumo: carta stampata.
Le giornate volavano veloci come la sua fantasia e pure quella non fece eccezione, alle 16 in punto, dopo aver salutato i suoi amati tomi, si diresse a passo sicuro verso l’uscita della libreria.
Chiuse la porta alle sue spalle salutando il proprietario con un gesto della mano e si mise a cercare nella borsa le chiavi del lucchetto della bicicletta.
“Dovrebbero inventare delle chiavi che galleggino all’interno delle borse, è mai possibile che riescano sempre a infilarsi nei meandri più oscuri e irraggiun…” un dolore molto forte alla spalla fermò la sua riflessione a denti stretti, si ritrovò a terra con gli occhi impolverati, li strofinò con vigore per vedere poi che un ladro stava scappando con la sua borsetta in mano.
Presa da una rabbia cieca si alzò di scatto mettendosi a correre come una forsennata per raggiungerlo, lei era allenata e quel malvivente sembrava un po’ troppo grosso per poterle sfuggire agilmente. Nonostante questa considerazione le sembrò che l’uomo stesse correndo ben al di sotto delle sue possibilità, quasi come se volesse essere raggiunto… non fece più di tanto caso a questo pensiero e si concentrò solamente nella corsa, ormai le mancava poco per raggiungerlo (ringraziò sé stessa per aver deciso di andare a lavoro in bicicletta e di aver quindi scelto calzature consone), il ladro svoltò bruscamente in un vicolo ma Lorenza non si fece fregare usando tutta la sua agilità per cambiare direzione, superò una serie di cassonetti e… si ritrovò l’uomo incappucciato con un passamontagna nero davanti… e non era solo.
In quel vicolo di quartiere dimenticato anche dai suoi stessi abitanti c’erano altri 2 uomini dal volto coperto ed una macchina bianca della quale non riconobbe la marca.
Senza battere ciglio il ladro gettò la borsa all’interno del bagagliaio della macchina e incominciò minacciosamente ad avanzare verso di lei.
Lorenza realizzò allora che il vero bersaglio dei malviventi non era la borsetta, ma lei! 
Che stupida era stata, doveva capirlo che quell'uomo non stava scappando ma semplicemente si stava facendo seguire allontanandosi dal centro abitato. Probabilmente sapevano chi era e da che famiglia proveniva potevano essere operai licenziati dal padre che volevano vendicarsi (aveva sentito parlare di situazioni di tensione tra i sindacati e i dirigenti della ditta del padre per i tagli al personale durante un TG regionale quella settimana), non poteva nemmeno escludere totalmente che fossero professionisti di rapimenti e che l’avessero adocchiata semplicemente perché era una bella donna pur senza sapere che gallina dalle uova d’oro fosse.
Tutti questi pensieri vennero increspati come uno stagno nel quale viene gettato un sasso dalla voce dell’autista della macchina, l’unico a essere seduto in macchina, a non essere mascherato e ad indossare abiti normali, anzi, da uomo d’affari. Disse attraverso il finestrino abbassato con voce bassa e cavernosa (probabilmente amplificata dallo stretto vicolo in cui lei stupidamente era andata ad infilarsi): “Due sono le cose… o vieni con noi senza fare storie e senza farti male, oppure provi a scappare e urlare… anche in questo secondo caso verrai con noi ma saremo costretti a farti del male… e a noi piace  molto fare del male… quindi ti prego, urla e prova a scappare!”
Gli altri uomini si guardavano tra di loro mutando l’inespressività dei volti coperti dai passamontagna in grottesche maschere sorridenti, ma solo il ladro che l’aveva scippata sorrideva con i denti e, Lorenza non riuscì a non notarlo, l’oro di uno dei suoi denti stava benissimo accanto al nero cupo del passamontagna e di tutta quella stramaledetta situazione.



Non disse nulla, semplicemente chinò la testa e, capendo l’impossibilità di fuggire, decise di entrare in macchina tra gli sguardi delusi dei malviventi, prima di salire però fissò con aria di sfida l’uomo con il dente d’oro per diversi secondi, questo le procurò un attimo di distrazione generale che le diede la possibilità di far lentamente scivolare il suo braccialetto di legno nero lucido per terra, ma le procurò anche un ceffone in pieno volto e le risate sadiche dei suoi rapitori.

Michele Brugiolo

martedì 29 gennaio 2013

6_ Polesine

“Tu non sai ancora il mio nome, com’è che non me lo chiedi?” “Se è per questo anche tu non hai ancora chiesto il mio…” “Già, abbiamo saltato le presentazioni quando sei salita in macchina. Sono Giulio, piacere!” e dicendolo le tese la mano, lei gliel’afferrò in una stretta piuttosto energica, qualcuno, fin da quand’era piccola, le aveva insegnato che si faceva così, che bisognava stringere forte.
“Mi chiamo Laura e il mio non è molto un piacere!” “Eh… Non posso darti torto, Laura” passò qualche secondo prima che l’uomo riprendesse a parlare “Bene, ora che ci conosciamo, ora che è successo il casino che è successo e dovendo decidere, assieme, sul da farsi, penso sia giusto spiegarti alcune cose…
Diversi anni fa, un po’ com’è successo stasera con te, avevo offerto un passaggio ad una ragazza, anzi inizialmente mi ero fermato a soccorrerla, perché l’avevo vista cadere. Aveva appena cominciato a piovere e lei, bellissima mi piomba in auto e mi chiede se potessi offrirle riparo per qualche minuto che presto qualcuno sarebbe venuto a prenderla. Ricordo come fosse ieri quel giorno. Ad un certo punto mi strilla di portarla via di lì, di correre lontano ed io intanto non sapevo cosa fare, lei piangeva, piangeva disperata… Metto in moto la macchina e prendiamo a girovagare senza una meta precisa, un po’ alla volta ritorna in sé e comincia a raccontarmi la sua storia e di come si sentisse oppressa da quella vita che non le apparteneva.” Giulio interruppe per qualche momento il racconto, chiuse gli occhi come a ripercorrere meglio quel passato che stava raccontando, quasi come lo stesse vedendo dal di fuori. Laura d’altro canto aveva cominciato a spaventarsi, immaginava che quel tale andasse alla ricerca di ragazzine da caricare in macchina, violentare ed ammazzare dopo ore di lunghe torture ed ora non aveva neanche più il coltello fra le mani, con un filo di voce gli chiese: “Perché mi stai raccontando questo?” “Non ti spaventare… ti spiego tutto, è che è così… cioè… questo incidente proprio non mi ci voleva… vedi… ora non trarre conclusioni affrettate, ma… è non è nemmeno un anno che sono uscito di carcereCarcere?!? Aveva capito bene? Laura non sapeva che fare, era pietrificata, voleva scappare, ma non ce la faceva a muoversi, mentre lui parlava lei pensava che le sue paure erano fondate, pensava a cosa fare nel caso in cui le si fosse avvicinato “un calcio alle palle, sì, è l’unica cosa che posso fare…”.
L’uomo riprese a parlare, pur sapendo che ormai lei era terrorizzata da lui, dalla storia che aveva raccontato fino a quel momento, e che anche spigandole i fatti com’erano andati veramente, era praticamente impossibile che lei gli credesse. Era spacciato, sarebbe finito di nuovo al fresco. Ingiustamente, ancora.


“Ti dicevo, andando per ordine… Quella donna, Lorenza, di lì a pochi mesi, sarebbe diventata mia moglie. Mi pareva impossibile che una donna tanto bella e intelligente e dolce, in gamba… era meravigliosa… potesse volere me, si fosse innamorata di questo bizzarro uomo, per niente attraente… eppure così è andata, strana la vita a volte, eh?  Ma come si dice, quello che ti viene dato, poi ti viene anche ripreso e la maggior parte delle volte con tanto di interessi.
Lorenza era l’unica figlia di una ricca famiglia del Ferrarese, l’azienda del padre era una fra le maggiori fabbriche nel settore del siderurgico in Italia ed io, un povero insegnante di chimica in un istituto tecnico di un piccolo paese del Polesine, potrai ben immaginare la gioia con cui mi hanno accolto in quella Casa.


E Lorenza che di quella vita non ne poteva più. Appena sposati decise di tagliare completamente i rapporti con i suoi genitori, preferiva una vita, ai miei occhi… mediocre. Ma per lei non era così, era felice di quel poco che potevo offrirle, era felice se ogni tanto la portavo fuori in laguna quando andavo a pesca… 


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lei se ne stava lì distesa a prendere il sole, su quella barchetta scassata, a leggere i suoi libri, spesso 
in inglese, voleva tenere allenata la lingua perchè “non si sa mai…”, alternandoli a qualche rivista da femmina. 

Era felice di andarsene in giro in bici, sbrigare qualche commissione, amava il lavoro in quella piccola libreria di paese, le piaceva cucinare, prendersi cura di cose semplici, forse banali. Ma non è così scontato, per chi, come lei, non ha mai avuto la possibilità di fare qualcosa di diverso da quello che le si imponeva. 
Bando alle ciance, sto divagando… un giorno di Aprile, era un venerdì, venerdì nove di tre anni fa, per l’esattezza, rientro a casa da lavoro, erano le sei di sera, mi ero fermato a scuola anche nel pomeriggio, perché c’era stata un’assemblea… e lei non c’era. Così su due piedi ho pensato che fosse andata a correre, faceva jogging quasi tutte le sere e quella sera era particolarmente calda per essere l’inizio di Aprile. Da quel momento in poi non l’ho più vista, Lorenza è sparita.”

Brigitta Destro

mercoledì 16 gennaio 2013

5_ I fiammiferi giganti


Le piaceva correre più di ogni altra cosa al mondo. Pensava che se alla sua età non si fosse data da fare per tenersi in forma sarebbe invecchiata molto velocemente. Voleva mantenere la fama di donna più bella dell’ufficio e lo voleva a tutti i costi nonostante l’assunzione di nuove apprendiste tanto giovani quanto smaliziate.
Lorenza correva ormai da mezzora lungo la strada che costeggiava il boschetto del suo ridente paesino. Era conscia del fatto che l’unico a sorridergli era proprio il paesino perché gli abitanti odiavano la sua famiglia e, nel vederla, provavano lo stesso sentimento anche nei suoi confronti presi dalla stessa ignoranza che qualche secolo fa aveva fatto strage di “streghe” nei paesi infestati dall’inquisizione.
Amava correre perché le dava un senso di libertà e di leggerezza. Sentire l’aria fredda della sera che le pizzicava le guance rendendole irrimediabilmente rosse per ore la faceva sentire viva.
Lorenza disprezzava i suoi genitori tanto quanto i suoi compaesani ma, schiacciata dall’autorità del padre che l’avrebbe voluta alla guida delle aziende di famiglia al momento della sua morte, non aveva mai avuto il coraggio di andarsene per cercare una sua strada.
A dire il vero, una volta,  aveva provato a farlo ma la notizia della malattia del padre l’aveva fatta desistere dal partire. Nonostante i suoi genitori fossero persone completamente diverse da lei, non riusciva a voltare le spalle all’uomo che l’aveva generata sapendo che stava per morire.
Neanche al momento della diagnosi li aveva visto piangere, erano persone emotivamente morte, o più probabilmente mai nate. Evidentemente stavano assieme solo per interesse dato che entrambi erano ereditieri di società molto importanti una volta rivali tra loro.
Lorenza era figlia unica ed era grata a Dio di essere nata dato lo scarso interesse affettivo che la madre dimostrava per suo padre.
Cercò di scacciare quei pensieri nei quali si era più volte immersa senza trovare conforto se non nella corsa.
Si accorse solo allora che era rimasta ben poca luce e che le nuvole da bianche pecore di zucchero filato erano diventate  nere onde di petrolio. Guardò l’orologio-conta passi che aveva allacciato al braccio e vide che si era fatto tardi, spesso correva più veloce con la mente che con le gambe e, senza accorgersi, si ritrovava nel buoi, lontana da casa e senza più energie. A volte chiamava uno degli autisti di famiglia ma altre volte optava per un ritorno a piedi, tanto, i suoi genitori, non si sono mai preoccupati troppo della sua assenza, anzi probabilmente non la notavano neppure.
Durante l’adolescenza aveva cercato disperatamente di farsi largo nei loro cuori sia nel bene che nel male: aveva alternato anni scolastici da prima della classe a condotte teppistiche accompagnate da continui richiami ai famigliari che, per loro conto, inviavano i governanti a parlare con il preside.
All'università poi, se l’era presa molto con calma, frequentava più ragazzi che lezioni scegliendo accuratamente quelli più scapestrati e pericolosi.
Aveva anche provato a portarne qualcuno a casa senza riuscire a suscitare nessun tipo di interesse o di sdegno da parte dei famigliari. Quando capì che anche quella tattica era inutile, si rassegnò e finì in breve tempo il suo percorso universitario con ottimi risultati tra lo stupore dei suoi ex compagni e i frammenti di cuori spezzati dei suoi ex ragazzi.
Quella sera non aveva voglia di chiamare nessuno, si girò sui suoi passi e, aprendo vistosamente le braccia per permettere alla respirazione di rallentare il battito cardiaco, cominciò a camminare.
Alternava passi ben distesi a bracciate e boccate d’aria in modo un po’ scoordinato ma comunque efficace. Stava ben attenta a non inspirare nei momenti in cui passavano le macchine ma sceglieva sempre strade poco trafficate e con larghe piste pedonali.
Una goccia d’acqua si posò sul suo naso leggermente aquilino incrociandole gli occhi, si stava per mettere a piovere. Lorenza amava il caldo e odiava le docce fredde, pur essendo quasi esausta si obbligò a rimettersi a correre per evitare la pioggia o, per lo meno, per trovare un posto dove poter aspettare all'asciutto l’arrivo dell’autista una volta chiamato.
Altre gocce andarono a posarsi tra i suoi lunghi capelli rossi quasi ricci mentre altre ancora le bagnavano le labbra sottili, lei le assaggiò trovandole senza gusto come la sua vita.
Aveva davanti un viale di lampioni accesi a poca distanza l’uno dall'altro  le sembravano tanti fiammiferi giganti che iniziavano a preoccuparsi della pioggia. Quell'immagine mentale le ricordò il mondo fatato nel quale si rifugiava da piccola: un posto dove la magia sostituiva la tecnologia e gli esseri umani erano banditi, tutti tranne lei.



Per una persona amante del jogging non avere i piedi per terra e la testa per aria può risultare pericoloso. Lorenza infatti non si rese conto che il terreno asfaltato stava lasciando il posto a una terra battuta molto più dissestata, una buca ingannò i suoi passi stanchi ma sicuri facendola cadere a terra. Distorsione alla caviglia.
Aveva letto che c’erano vari livelli di distorsione ma, qualsiasi fosse il suo, non le permetteva di reggersi in piedi e faceva dannatamente male.
Un sussulto di rabbia e dolore si presentò ai suoi denti serrati mentre, nervosa più che mai, estraeva il cellulare per chiamare l’autista . La pioggia aumentava.
Il dolore stava diventando sempre più insistente cosa che le fece invidiare i suoi amici fiammiferi, ancora accesi, luminosi e soprattutto…eretti.
Mentre stava sfogliando la rubrica alla ricerca del numero di cui necessitava, vide che una macchina le stava vicino. Ne scese una figura tarchiata che, coprendosi goffamente la testa con un quotidiano, le si avvicinò chiedendo: “Ehi tutto bene? Ti sei fatta male? Serve un aiuto?”. Lorenza era esterrefatta e non sapeva se era più stupida la domanda ricevuta o la risposta ovvia che stava per fornire: “Devi essere un tizio perspicace a mille! Si mi sono fatta male e non riesco a camminare,” disse stizzita ” per favore fammi entrare in macchina fino a quando non mi verranno a prendere, è questione di pochi minuti…”.
L’uomo rispose che andava bene e, mettendosi il giornale sotto braccio, la aiutò a salire nella macchina tedesca che aveva comprato da un concessionario di auto usate poche ore prima, il venditore l’aveva convinto dicendo che neanche col peggiore degli incidenti l’avrebbe mai messa fuori uso.


Michele Brugiolo

lunedì 14 gennaio 2013

4_ I pioppi cipressini

Ad un certo punto una forte sensazione di vertigine la colse, la stessa di una caduta durante il sonno, talmente fastidiosa da riportarla tutta ad un tratto a fare di nuovo i conti con la realtà. Aperti gli occhi avvertì di non avere più la terra sotto i piedi, un attimo di panico la colse prima di accorgersi che qualcuno la stava portando, come un peso morto, in braccio, si girò e riconobbe gli occhiali ed il naso dell’uomo a cui fino a pochi minuti prima aveva sbraitato contro. Forse esagerando, pensò.
Quell’uomo non molto alto (Laura aveva la sensazione che, con buona probabilità, dei due, la più alta fosse lei), grassoccio, sudava ed ansimava per la fatica e per giunta gli si erano pure appannate le lenti degli occhiali. Sentiva le sue mani che la reggevano, la sinistra infilata sotto l’ascella mentre con la destra le afferrava una coscia nel tentativo di dare maggiore stabilità al braccio che stava improvvisando a seggiola. Sentiva le goffe dita di lui che sprofondavano fra i suoi abiti, certo non c’era malizia alcuna in quelle mani e certo fra la sua pelle e le dita di lui c’erano abbondanti strati di cotone ed il panno in lana del montgomery verde ad interporsi, ma il pensare che un estraneo e, soprattutto un tipo del genere la stesse toccando… rabbrividì e nello svincolarsi cadde a terra.
Avvertì il terriccio umido della campagna sotto i piedi scalzi e sui palmi delle mani, si guardò intorno ed altro non vedeva che lunghe distese di campi, infinita campagna interrotta soltanto da qualche fosso che scintillava alla luce del primo quarto di luna ed un filare di pioppi cipressini




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Nient’altro. Non una casa, non una strada asfaltata, né fari di macchine in lontananza o finestre di case illuminate.
La colse il panico e senza pensare cominciò di nuovo a urlargli contro, una valanga di imprecazioni, offese e domande, lui che se ne stava lì in piedi a fissarla, inebetito senza aprir bocca, non sapeva cosa fare, cosa risponderle. La situazione per lui non era facile, ma era giunto il momento di spiegarle chi fosse, raccontarle la sua storia, che incombeva ancora più scomoda ora che si trovava nel bel mezzo del nulla con una sconosciuta, forse persino minorenne ed una macchina, la sua vecchia Mercedes SEC, uscita di strada. Ma ora dovevano, insieme, decidere sul da farsi. Trovare una qualche soluzione.
Velocemente nella sua testa ricompose gli avvenimenti che gli erano accaduti in quegli ultimi sette anni, sette anni che avrebbe voluto cancellare, cercò quindi di mettere assieme le parole per costruire le frasi che servivano a dar forma a quel racconto che mai avrebbe voluto dover raccontare, ma che ora era costretto a fare. “Stai bene?”, Laura si era calmata e alzatasi cercò, per quanto quel buio le permettesse di fare, di darsi un’occhiata generale, sembrava essere tutto a posto, aveva solo i jeans un po’ sporchi di terra ed ora, era senza entrambe le infradito.
Alzò lo sguardo verso di lui, ma senza più rabbia. Per la prima volta lo guardò attentamente alla luce della luna che tutto sommato abbastanza bene illuminava la notte ed il suo volto. Improvvisamente Laura si mise a ridere, anche se cercava di farlo a denti stretti per non farsi notare da lui, doveva continuare a mantenere la parte della dura, della furibonda, ma non riuscendoci decise di giocare a carte scoperte, anche lei.  Non aveva più voglia di recitare quella parte, così decise di abbozzare un sorriso e spiegare il perché di quell’improvviso momento di ilarità, “Vedo che il rosa ti dona!”, l’uomo inizialmente non capendo, abbassò lo sguardo cercando di darsi un’occhiata e vide le bretelle dei manici dello zaino di lei, intuì la buffa immagine di sé che le stava restituendo con indosso quello zainetto rosa. “Certo che mi dona, ho un completo blu addosso!”. Forse non era poi così tonto e forse aveva anche un briciolo di umorismo. Ma proprio non c’eravamo con la musica, né tanto meno con la guida.
“Certo che come autista fai proprio schifo… Spiegami come si fa ad uscire di strada andando ai 60 all’ora in una strada come quella, perché, davvero… Che frana!” “Già, ma il parabrezza appannato… e quella macchina che è sbucata dal nulla tentando un sorpasso impossibile, o sbandavo o ci andavamo addosso, non è che ci fossero molte altre alternative, ragazzina! L’importante è che tu non ti sia fatta male, non te ne sei fatta, vero?” “No, non mi pare… mi sento ok, considerato quello che è appena accaduto, comunque piantala di chiamarmi ragazzina, non sono così piccola, che ti credi?” “E quanti anni avresti? Quindici? Sedici?” “No, venticinque!”

Brigitta Destro

martedì 8 gennaio 2013

3_ Il trombonista

Quel naso però iniziò ad agitarsi in preda al nervosismo, segno che qualcosa stava turbando i pensieri della sua passeggera. E' vero che Laura si augurava di essere interrogata in qualche modo ma una domanda che portasse con sé una sorta di preconcetto implicito era l’ultima cosa che lei voleva sentire Il tipico modo fasullo che sua madre aveva di  interessarsi della sua vita era proprio quello: chiedere affermando la propria idea.
Ed infatti improvvisamente sbottò con voce acuta: “Casini? Che genere di casini intendi? Forse dovresti pensare prima di dare un passaggio a qualcuno se quel qualcuno ha l’aria di qualcuno che ha combinato qualche casino! Perché si da il fatto che il mondo sia pieno di tanti qualcuno che combinano casini! Perciò se hai voglia di giudicarmi in base a non so quale identikit del qualcuno casinista che hai in mente tu” (solo qui riprese fiato) “fa pure ma prima ferma la macchina e fammi uscire, non ho nessuna intenzione di lasciarmi infastidire da un qualcuno che non sa neanche a che velocità sta andando perché ha una macchina del paleolitico e ascolta musica orrenda!”
Silenzio.
Era successo tutto così rapidamente che l’unica reazione dell’uomo fu quella di smettere di fissare la sua passeggera, spegnere l’autoradio e ricominciare a guardare dritto davanti a sé tenendo il volante talmente stretto da far sbiancare le nocche delle dita.
Anche Laura era talmente scioccata dalla sua stessa reazione che non accennò neanche ad un movimento per paura che l’uomo, spazientendosi, accostasse e la obbligasse veramente a scendere, cosa che avrebbe complicato notevolmente il suo piano di fuga verso il mondo.
Passarono molte auto in senso opposto ma le espressioni che i fanali illuminavano erano pressoché granitiche fino a quando l’uomo, che evidentemente evitava di respirare a pieno per non distruggere quell'atmosfera da quiete prima della tempesta, fece entrare nei polmoni una buona dose d’aria gonfiando il petto come chi, atteggiandosi, sta per dire qualcosa di scontato. Rimase in quella strana posa rigonfia per qualche secondo, aprì la bocca, roteò entrambi gli occhi verso destra cercando di carpire l’espressione sul volto della sua passeggera e… espirò rumorosamente dalla bocca senza proferire parola ma appannando vistosamente il parabrezza.
Il secondo rumore che incrinò pericolosamente quell'onirico silenzio fu provocato dallo sfregamento della manica sinistra del guidatore contro il vetro nel tentativo di spannarlo e tornare finalmente a vedere decentemente la strada.
Il tutto prese una piega talmente surreale da diventare ridicolo, il suono penetrante e buffo dello strofinio sembrava avere lo stesso effetto del solletico su Laura, di li a poco si mise a sghignazzare rumorosamente stringendo i denti per non farsi notare.
L’autista smise di lottare con il parabrezza optando per l’apertura di un finestrino (dato che l’auto non era provvista di aria condizionata), si rimise a sedere correttamente guardando di nuovo la ragazza esclamando: “Magari non sarai un qualcuno che ha combinato casini, ma sei strana forte! Ti sembra il modo di urla…” ”FRENAAAAAAAA!”…
Silenzio.
Un silenzio dal rumore completamente diverso rispetto a quello di prima, non c’era più imbarazzo nell'aria ne tanto meno timidezza.
Laura riprese lentamente i sensi sbattendo le palpebre come al suono della sveglia dopo una notte tormentata,  non ricordava bene cosa fosse successo ma il suo stesso grido le rimbombava ancora in testa. Riebbe improvvisamente la percezione del suo corpo e capì che non era sdraiata ma in una strana posizione seduta con i piedi a penzoloni. Passarono altri momenti dalla lunghezza indefinita prima che Laura riuscisse a percepire una voce lontana, apparteneva ad un uomo ma ogni parola giungeva alle sue orecchie ovattata e distorta. Tutto questo le ricordò la voce degli adulti nella versione animata del fumetto “The peanuts”. I “grandi” parlavano in un gergo incomprensibile caratterizzato da suoni simili ad una prima lezione di trombone eseguita da un allievo per nulla dotato.





Col tempo il trombonista in erba riuscì a rischiarare il suo suono permettendo a Laura di percepire parole sconnesse che registrò mentalmente: ”…vecchia” “…che cazzo ci faceva…” “…ragazzina idiota…” “…prendono non esco più…”.
L’ultimo pensiero che la scosse rifacendole perdere i sensi fu il rendersi conto che aveva perso il coltellino, il suo unico strumento di autodifesa e così, mentre l’inesperto trombonista ricominciava a sbrodolare le note della sua imbarazzante esibizione, Laura chiuse gli occhi. Fu di nuovo silenzio, un silenzio pieno di vergogna perché senza applausi.


Michele Brugiolo

lunedì 7 gennaio 2013

2_ L'abito da sposa

Eccolo quell’imbarazzante momento in cui due sconosciuti si ritrovano l’uno accanto all’altra, quel momento esatto in cui una domanda sorge spontanea: ed ora, cosa faccio? Che sia il caso di restare in silenzio o di accennare un qualche discorso stereotipato, magari, come si fa sempre, iniziando a parlare del tempo e delle previsioni meteo che preannunciano il medesimo “inverno più freddo degli ultimi cinque anni”?
Quel tipo bizzarro invece, sembrava non trapelare il benché minimo disagio nell’avere quella giovane ragazza, tirata su nel cuore della notte, seduta sul sedile a fianco del suo, pareva non curarsene al punto tale di essersene scordato, mentre lei impaziente era lì ad aspettare chissà quale interrogatorio. Era abituata così, doveva sempre, in ogni singolo momento della sua vita, rendere conto di qualcosa a qualcuno e quel silenzio la stava cominciando ad irritare.
Lo osservava attentamente, cercando di capire quanto più possibile di quell’uomo che aveva deciso di portarla verso un dove che ancora non conosceva, a cui aveva deciso di dare fiducia, anche se il coltellino era ancora ben stretto nella mano. Peccato che pochissime cose le risultassero chiare e fra queste era il pessimo gusto musicale del suo autista, anche se di capire esattamente di che musica si trattasse poco le importava, voleva solo che quella musicassetta terminasse e, in fretta.
“Mi hai fatta salire anche se non sono in abito da sposa?”, 




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una caratteristica di Laura era quella di saltarsene fuori con domande del tutto insensate, o meglio, di un senso che solo lei capiva, anche se c’erano un paio di persone che le riuscivano a stare dietro a quei suoi ragionamenti così contorti, forse perché avevano deciso di conoscerla per davvero, avevano deciso di condividere aspetti anche profondi di ciò che sta dietro a quello che la quotidianità può far apparire spesso come banale e noioso, “Cosa stai blaterando ragazzina, sicura di stare bene?” “No, niente… era riferito ad un
libro che stavo leggendo e che, con la fortuna che mi ritrovo, non riuscirò a completarne la lettura, visto le quattro robe che mi sono portata dietro… se c’è una cosa che proprio non sopporto è quella di lasciare un libro a poche pagine dalla fine, la fine è importante, la fine, quando una cosa è fatta bene, dà senso al tutto!” “No, scusa la domanda… tu non stai bene, non stai bene per niente!” disse l’uomo ridendo. Aver deciso di dare un passaggio alla ragazza forse non si era rivelata una scelta tanto sbagliata visto che averla lì al suo fianco stava cominciando a metterlo di buonumore, aveva cominciato a considerare interessante il suo passeggero e se non proprio interessante per lo meno ne era incuriosito. 
Non era dello stesso parere Laura, che alla risata di lui, si sentiva presa in giro e dentro di sé cominciava a pensare che forse, era un tipo ordinario al quale era meglio parlare del tempo e che, come suo solito lei straparlava e stava facendo la figura della scema. Ma niente era più lontano dalla verità, lui ora era felice, avrebbe avuto voglia di porle migliaia di domande, cosa che non era da lui così avvezzo alla solitudine, condizione a cui si era abituato e che tutto sommato gli piaceva. “Se posso chiederti, hai combinato qualche casino in giro?” e nel chiederlo si girò ad osservarla, cosa che fino a quel momento non aveva avuto la minima necessità di fare, ma ora era curioso di guardare meglio che volto avesse la ragazza. Mentre la ascoltava, per quel poco che il buio permetteva di mostrargli, osservava un viso spazientito, illuminato dall’alternarsi dei fanali delle poche macchine che incrociava lungo la strada, i capelli erano molto lunghi, castani e lei era carina, forse aveva qualche lentiggine in volto, ma era troppo buio per esserne certo, naso all’insù e delle ciglia molto folte.  “Quel naso”, pensava fra sé, “le sta bene, è in linea con quel carattere impertinente che si ritrova”, ma era consapevole che l’impertinenza era una maschera per non mostrarsi "debole" agli occhi di uno sconosciuto che aveva deciso di farla salire, di notte, a bordo di una macchina scassata.

Brigitta Destro

giovedì 3 gennaio 2013

1_ L'infradito

Pollice in su, pollice in su, pollice in su…Niente da fare.
“La gente oggigiorno diventa sempre più diffidente”. Quanto avrebbe voluto vivere negli anni ’70, all’epoca, o almeno così aveva sentito dire, la gente era molto più aperta e disponibile a dare un passaggio. Certo i pc e gli smartphone ancora non esistevano ma era un prezzo che avrebbe volentieri pagato pur di ritrovarsi in una società a sé più congeniale. Sarebbe stato ancora più bello poter viaggiare nel tempo senza perdere la memoria ma sfruttando la conoscenza del ventunesimo secolo per arricchirsi prima degli inventori che rivoluzionarono le nostre vite… e anche le loro!
Pollice in su… Ancora niente.
Chiedere un passaggio avendo abiti sgualciti ed evidenti segni di stanchezza sul volto (per non parlare del fatto che non indossava scarpe ma infradito in autunno inoltrato) poteva sembrare un’operazione disperata, ma si sa che qualsiasi nave dispersa in una notte tempestosa scambia ogni riflesso che vede per un faro guida.
Questa era proprio la sua situazione, si sentiva molto solidale con queste povere imbarcazioni pur con la consapevolezza che il 95% di esse sprofondano negli abissi dopo aver cozzato contro un ostacolo reso invisibile dalla notte, ammirava il fatto che fino all’ultimo lottassero per ritrovare la rotta e, all’ultimo, per rimanere a galla.
Cosa ancor più strana, e che di fatto differenziava la sua vita da quelle imbarcazioni, era che aveva fatto da sé la scelta di sabotare il proprio timone. Esatto, aveva preferito la precarietà alla stabilità, l’incertezza all'agiatezza  cosa inaccettabile per la società odierna che etichetta tutti in base al ruolo sociale e ancor più inaccettabile per sua madre che portava un’etichetta sulla fronte più grande di lei, lo faceva pure con orgoglio sventolandola in faccia a tutti, soprattutto ai suoi tre figli. Era proprio quello il punto: non voleva un ruolo sociale, o almeno non quello che avrebbe dovuto subire.
Ah! Gli anni ’70! Quello era il suo posto, li c’era il tempo per passare una giovinezza che valesse veramente la pena di essere vissuta, poco importava se poi quasi tutti quei splendidi esemplari di capelloni sentimentalmente lascivi si fossero fatti assorbire dalla società che criticavano, l’importante era aver vissuto l’adolescenza da uomini liberi! Per troppo tempo aveva sognato, era arrivato il momento di passare all'azione e cercare di realizzare quel desiderio, per quanto vago e indistinto fosse.
Pollice in su… Pollice in su… Un’altra delusione, anzi due.
Nonostante lo sconforto si stesse facendo largo tra i suoi pensieri, non poteva fare a meno di accennare inconsciamente un sorriso ogni volta che alzava il suo pollice destro, pensava sempre al suo social network preferito e a tutte quelle ore perse a “comunicare” pur non avendo nulla da dire. Badate bene che non stava fuggendo dalla tecnologia, anzi, quello forse era il distacco più doloroso che a malincuore aveva accettato infatti… un’altra macchina stava per arrivare!
Pollice in su… Rallenta!

Finalmente qualcuno sembra averla notata, gli altri automobilisti dopo aver soddisfatto la propria curiosità iniziale, facevano finta di non vederla mentre le passavano accanto accelerando a debita distanza. L’auto non era granché, il colore era forse uno dei più brutti che avesse mai visto (una sorta di verde militare opaco) e l’età probabilmente superava la sua (doveva essere una vecchia macchina tedesca di fine anni ’80 o almeno così pensava) ma non era certo nella situazione di potersi lamentare, il suo viaggio forse poteva finalmente proseguire. Dopo aver abbassato il finestrino una striata voce maschile le chiese “Dove devi andare?”“Dove devi andare tu?” rispose cercando di scorgere il volto del suo interlocutore completamente avvolto nell'oscurità della notte avvalorata dal cruscotto privo di led funzionanti, riusciva solo a scorgere il riflesso di un paio di occhiali ovali (decisamente fuori moda) ed un naso leggermente a patata.“Facciamo una cosa” riprese lui “sali e ne parliamo, non sopporto di dover rimanere troppo a lungo sul ciglio della strada di notte, soprattutto parlando ad una ragazza, non vorrei mai che qualche sbirro ci scambiasse per una prostituta ed il suo cliente… non ho proprio voglia di farmi notare da quei tizi”. Il buon senso di Laura gridava “PE-RI-CO-LO” in tutte le lingue che conosceva, ma dopo un pomeriggio perso senza risultati in compagnia della paura di farsi scoprire, decise di accettare. In fondo nemmeno lei voleva farsi notare da “quei tizi” che sicuramente erano già stati sguinzagliati dalla madre con la promessa di una lauta ricompensa per chi l’avesse riportata tra le sue “amorevoli” braccia. “Ok” rispose di spalle mentre con le mani frugava lo zaino alla ricerca del coltellino multiuso  omaggio ricevuto in uno spaccio di vestiti a basso costo frequentato da lei nonostante lo sdegno della madre. Infine lo trovò e lo nascose nel pugno destro persuasa che non lo avrebbe lasciato per un bel po’ di tempo. Dopo aver caricato il suo zaino sul sedile posteriore, aprì la porta del passeggero e si sedette. Lui non aspettò nemmeno che richiudesse lo sportello né tanto meno che si allacciasse la cintura, semplicemente iniziò ad accelerare quando lei stava ancora staccando il piede destro dall'asfalto.  Finalmente aveva ottenuto un passaggio, ma anche una ciabatta di meno.




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Michele Brugiolo